In un’epoca come quella che stiamo vivendo in cui raffinatezza tecnica, evoluzione continua, tecnologia avanzata e specializzazione sembrano essere i principali criteri guida dei progettisti, è quasi impensabile concepire l’esistenza di un propulsore in grado di equipaggiare indifferentemente berline di lusso, fuoristrada, SUV e perfino vincere due campionati mondiali di Formula 1. A rendere ancora più impressionante la storia di questo V8 c’è poi il fatto tutt’altro che trascurabile che ad esso è legata gran parte del mito Range Rover, un veicolo assolutamente atipico ed innovativo all’inizio degli Anni Settanta per la sua capacità di trovarsi assolutamente a suo agio nei percorsi fuoristrada e nelle strade più eleganti del centro città.
Un altro aspetto singolare nella storia quarantennale di questo motore è che nasce da un progetto abbandonato dalla General Motors dopo averne prodotti circa 380.000 esemplari in tre anni. Per quanto incredibile possa oggi sembrare, le ragioni di questa decisione stavano nel fatto che questo compatto e leggero (144 kg) motore V8 da 200 CV destinato alla gamma Buick 1961 era in alluminio e quindi troppo costoso da produrre. Come se non bastasse, questo V8 – di cui esisteva anche una versione turbo da 215 CV per la Oldsmobile e per la Pontiac (BOP215 ovvero Buick-Oldsmobile-Pontiac 215 cavalli) – presentava anche alcuni problemi di raffreddamento dell’olio e dell’acqua dovuti alle guarnizioni utilizzate nei rispettivi circuiti ed al fatto che il radiatore tendeva ad intasarsi, poiché l’antigelo utilizzato non era compatibile con l’alluminio. Sia come sia, nel 1963 la General Motors ne interruppe la produzione e lo sostituì con un analogo motore con monoblocco in ghisa che utilizzò sulle Buick fino al 1980.
Questi problemi non scoraggiarono però un misterioso ”ingegnere della Rover” (probabilmente il suo amministratore delegato dell’epoca William Martin-Hurt) che, nel 1963, visitando un impianto General Motors, negli Stati Uniti, vide, abbandonato in un angolo, un compatto 8 cilindri a V e si accorse che aveva le dimensioni giuste per entrare nel cofano della P5, la berlina che la Casa inglese costruiva dal 1959 e che aveva urgente bisogno di un motore più potente.
Qualche settimana dopo il progetto divenne proprietà della Rover ed il capo-progettista americano Joe Turley che lo aveva sviluppato fu richiamato dalla pensione e si trasferì in Inghilterra come consulente della Casa inglese. Cominciò così a prendere vita il V8 che, dopo aver equipaggiato le berline Rover P5 e P6, divenne famoso sulla Range Rover e finì sulla Rover SD1, l’auto dell’anno 1977.
Appena arrivato in Inghilterra il V8 fu oggetto di una serie di modifiche che lo resero subito più “britannico”. I carburatori GM Rochester furono sostituiti dagli SU, l’accensione AC Delco dalla Lucas. Lo starter automatico divenne manuale. Questa prima (e probabilmente anche più significativa versione del motore Rover 3500-V8) aveva una cilindrata di 3.528 cc (alesaggio/corsa 88,9 x 71,0 mm), era alimentata da due carburatori SU, sviluppava 143 CV (105 kW) a 5.200 giri/minuto ed era più pesante (170 kg) rispetto al V8 Buick. Nel 1967 toccò alla Rover P5B l’onore di portare al debutto il nuovo V8 di 3,5 litri. L’anno seguente arrivò poi la versione 3500 della Rover P6 (l’auto dell’anno 1964) e nel Giugno 1970 fece la sua apparizione nel cofano della prima Range Rover.
Con il lancio della Rover SD1, nel 1976, la potenza salì a 155 CV (114 kW) grazie soprattutto ad una serie interventi alla distribuzione ed alla gestione dei flussi di aspirazione e di scarico, all’adozione dell’iniezione elettronico e di una diversa pompa dell’olio. Il motore era anche un po’ più leggero. L’alimentazione venne affidata ad una coppia di carburatori Stromberg, ma nel 1983 per la sportiva versione Vitesse arrivò anche l’iniezione elettronica Bosch L-Jetronic.
Oltre che su molte Rover e Land Rover questo V8 trovò applicazione anche su altri modelli dello stesso gruppo industriale come le sportive MG B GT V8 e Triumph TR8 e perfino su vetture di costruttori indipendenti come Morgan e TVR che sfruttarono le sue doti di potenza e coppia ad un costo tutto sommato abbastanza contenuto.
La potenza, si sa, non è mai abbastanza e la strada più facile per ottenerla è l’aumento della cilindrata. All’inizio degli Anni Novanta venne presentata una versione maggiorata a 3.946 cc ottenuta portando a 94,0 mm la misura dell’alesaggio e lasciando invece invariata quella della corsa. Nel 1995 il 3.900-V8 fu oggetto di un aggiornamento tecnico che non comportò una variazione della cilindrata (anche questa versione viene chiamata 4.0), ma solo l’adozione di condotti di aspirazione e di scarico, i pistoni ed i supporti che fece salire la potenza a 190 CV (142 kW). Questa versione uscì di produzione nel 2003.
Nel frattempo furono allestite una versione di 4.275 cc (con nuovo albero motore e corsa maggiorata a 77,0 mm) per la Range Rover ed una di 4.280 cc per le sportive Griffith e Chimaera costruite dalla TVR. Per quest’ultima venne realizzato anche un V8 di 4.444 cc. Alla Range Rover ed alla Discovery fu destinata invece un V8 di 4.552 cc (alesaggio/corsa 94,0 x 82,0 mm) da 225 CV (168 kW), mentre per le TVR fu sviluppata una versione di 4.997 cc (alesaggio/corsa 94,0x 90,0 mm) da 340 CV (254kW).
La produzione dei motori Rover V8 si interruppe ufficialmente nel 2005 con la chiusura del gruppo MG Rover Group, ma il motore continuò ad essere utilizzato dalla Land Rover quando divenne successivamente proprietà di Ford, BMW e Tata.
Un V8 da corsa
Il V8 “Buick-Rover” vanta anche importanti trascorsi sportivi. Nel 1962 Mickey Thompson realizzò che grazie anche al suo monoblocco in alluminio uno dei più leggeri motori derivati dalla serie in circolazione e lo portò (unico non-Offenhauser in una griglia di partenza di 33 monoposto) alla 500 Miglia di Indianapolis. Con esso Dan Gurney si qualificò all’ottavo posto e si ritirò al 92esimo giro per problemi alla trasmissione.
Maggior successo incontrò in Fornula 1 dove conquistò addirittura il titolo mondiale per due anni consecutivi, nel 1966 e nel 1967, con Jack Brabham e Denis Hulme. Questa fortunata operazione nacque nel 1963 quando il neo-costruttore Brabham avvicinò l’australiana Repco per affidargli la revisione dei 4 cilindri Coventry Climax FPF di 2.500 cc che utilizzava sulle monoposto con cui partecipava alla Tasman Cup, una campionato che si correva all’inizio dell’anno in Australia e Nuova Zelanda. Fu l’inizio di una fortunata collaborazione.
Quando la FIA annunciò che dalla stagione 1966 la cilindrata dei motori di Formula 1 sarebbe stata raddoppiata a 3 litri e la Coventry-Climax, il principale fornitore di motori delle scuderie inglesi, si ritirò dalle corse, Jack Brabham costituì in accordo con la Repco la Repco Brabham Pty Ltd con sede a Maidstone.
Qui nell’Autunno del 1965 Phil Irving e Frank Hallam svilupparono il Repco 620, un V8 per la nuova Formula 1 di 3.000 partendo monoblocco in alluminio del motore della Oldsmobile F85. Per ragioni economiche e di semplicità costruttiva si utilizzò materiale disponibile in commercio: bielle Daimler adattate, iniezione indiretta Lucas, alberi motore e testate prodotti esternamente. La potenza non era molta. Con sì e no 310 CV (231 kW), il Repco 620 era di gran lunga il meno potente dei nuovi motori da 3 litri, ma era leggero e compatto (lunghezza 74 cm, peso 148 kg) e quindi trovava facilmente posto su telai Brabham concepiti per la vecchia F1-1.500 cc e soprattutto, a differenza dei diretti concorrenti, era molto affidabile. Con questo motore 1966 Jack Brabham ottenne 3 pole position, 4 vittorie ed il titolo iridato (il terzo per il campione australiano dopo i due con la Cooper-Climax).
Per la stagione 1967 la Repco approntò la nuova versione tipo 700, riconoscibile esternamente per i i tubi di scarico che uscivano ai lati del motore. Brabham colse 2 pole all’inizio dell’anno, ma presto dovette fare i conti con i 400 CV del Ford-Cosworth DFV montato sulle Lotus 49 di Jim Clark e Graham Hill. Il motore australiano, che poteva però contare ancora sulla sua leggendaria affidabilità, conquistò il titolo mondiale con Denis Hulme, due volte primo sul traguardo, come peraltro l’inossidabile “Black Jack”.
Nel 1968 debuttò una versione bialbero a 4 valvole per cilindro da 380 CV, ma ormai il gap con i Ford-Cosworth DFV adottati anche da Matra e McLaren era troppo ampio. Le difficoltà di comunicazione tra il team Brabham in Inghilterra e la Repco in Australia impedirono di risolvere tempestivamente i problemi ed a fine anno il programma venne abbandonato.
Nello stesso 1968 era stata allestita una versione di 4,2 litri che partecipò a due edizioni della 500 Miglia di Indianapolis, gara che nel 1969 Peter Revson concluse al quinto posto.
Paolo Ferrini